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Vecchio 28-12-2009, 20.55.00
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a cura di Angelo Sorino

Non si può raccontare la storia dell’Alfa 90 senza descrivere brevemente la storia dell’Alfa Romeo dal secondo dopo guerra ad oggi, essendo la 90 stessa, nel bene e nel male, frutto della grande tradizione della Casa del Biscione.
C’era una volta una fabbrica lombarda di automobili. Questa non costruiva automobili normali, le loro doti stradali per velocità, tenuta di strada e sicurezza le rendevano speciali e molto diverse dalle altre.
Tuttavia la fascia di utenti ai quali questi gioielli di tecnica motoristica era rivolta non era così ampia in quanto, proprio per le loro caratteristiche esclusive e per le dimensioni delle carrozzerie importanti come lo erano quelle di alesaggio e corsa, erano pochi i fortunati che potevano permettersele.
Fino a quando però, dopo la seconda guerra mondiale, la dirigenza indicò la via della produzione (ed anche della ricostruzione) delle vetture verso l’industrializzazione di un prodotto che fosse alla portata non proprio di tutti, ma comunque meno esclusivo e senza perdere nulla, o quasi, di quelle che erano le caratteristiche del marchio che ormai tutto il mondo conosceva come ALFA ROMEO.
E da quel momento in poi, nel 1950, dalle officine del Portello non uscirono più le 2500 o le 2900 ma bensì le 1900, auto straordinarie che, nelle varie versioni e con il loro gradimento da parte del pubblico, decretarono l’industrializzazione dell’Alfa Romeo che, quattro anni più tardi presentò una nuova vettura stavolta ancora più piccola, con un motore di soli 1290 cc che stupì il mondo intero. Difatti, non solo questa automobile, Giulietta la chiamarono, pur essendo spinta da una unità di poco superiore al litro di cubatura, manteneva le stesse caratteristiche della sorella maggiore, la 1900, ovvero distribuzione con due alberi a camme in testa, camera di scoppio emisferica, albero motore su cinque supporti di banco, ma le esaltò, con doti di leggerezza e maneggevolezza fino ad allora sconosciute, merito quindi di un telaio correttamente progettato al pari delle sospensioni e dei freni.
Grazie a queste caratteristiche la Giulietta contribuì a consolidare il nome della casa su tutti i circuiti del mondo, sbaragliando in lungo e in largo la concorrenza.
Anche della Giulietta vennero presentate varie versioni, anche stavolta firmate da grandi maestri di forme come accadde per la 1900: Pininfarina, Bertone, Zagato…
All’inizio degli anni 60, il boom economico suggerì ai responsabili di alzare la posta, di creare una nuova macchina, più grande della Giulietta, quindi Giulia, con meccanica della stessa impostazione ma ulteriormente evoluta e con lo stesso motore, portato a 1570 cc. La validità del progetto in tutti gli aspetti permise alla Giulia di rimanere nei listini, praticamente invariata e nelle innumerevoli versioni berlina, coupè e spider disegnate dagli stessi carrozzieri della progenitrice, per quasi 15 anni, disponibile anche con motori da 1290 cc.
Sullo stessa schema venne realizzata una grossa berlina, dotata sempre di motore bialbero ma con 6 cilindri in linea con cubatura di 2,6 litri, ma con una linea pesante e non troppo personale: il suo destino fu del tutto analogo a quello della 2000, berlina elegante ricavata su meccanica 1900 sul finire degli anni 50. Diversa sorte ebbero invece la spider e la sprint, a firma rispettivamente Touring e Bertone, entrambe prodotte sia con il bialbero 4 cilindri 2 litri che 6 cilindri 2,6 litri.
Verso la fine degli anni 60, per consolidare la posizione del marchio a livello europeo nella classe delle berline eleganti, l’Alfa Romeo presentò a modo suo un nuovo modello, su base Giulia, di soli 1779 cc ma con le solite caratteristiche che permisero alla 1750, questo era il nome, non solo di competere con la concorrenza a livello di prestazioni ma addirittura di surclassare altre berline più blasonate con cilindrate superiori ai 2 litri. Questo modello venne aggiornato nel 1971 con lievi modifiche estetiche ma con la cilindrata portata a 1962 cc, portando all’apice delle prestazioni tutta la serie Giulia, in quanto sia questa unità che quella da 1779 equipaggio anche le Spider e le Gt, attribuendone, a ragione, la denominazione Veloce.
Tuttavia, l’uscita di scena della 1750 non rappresentò un vuoto di gamma per l’Alfa, che in quegli stessi anni, con la Montreal, montò un motore 8V di 90° derivato dalle Alfa 33 da competizione su uno schema Giulia coperto da una carrozzeria firmata da Bertone che lasciò il mondo a bocca aperta: nel 1972 venne presentata l’Alfetta, equipaggiata sempre con il classico 1779 cc lievemente riveduto e corretto ma con un telaio, una disposizione meccanica e con delle sospensioni assolutamente inedite per la concorrenza ma non per la stessa Alfa Romeo, che ebbe modo di collaudare a lungo questo schema per circa una ventina d’anni attraverso una serie di prototipi, e per altrettanti vent’anni lo stesso schema venne adottato praticamente per tutta la gamma di altri nuovi modelli, vuoi per la bontà del progetto, vuoi per le nubi che oramai si intravedevano all’orizzonte…
Infatti, il clima degli anni 60 già non si respirava più e la solita (diremmo oggi) crisi mediorientale modificò radicalmente gli usi e i costumi di noi europei, da sempre schiavi del petrolio, materia prima il cui costo in questi anni schizzò talmente in alto da suggerire ai principali costruttori, in particolare quelli dediti alla produzione di auto che delle prestazioni facevano la propria bandiera, di riorganizzare i propri programmi verso auto più modeste. Sotto questo punto di vista l’Alfa Romeo venne molto penalizzata: il pubblico, ad esempio, non poté apprezzare da subito la linea ed il piacere di guida del coupè presentato su base Alfetta che anzi, un anno più tardi, venne proposta, la berlina, in versione economica, con lo stesso motore della Giulia, il 1570, e con carrozzeria semplificata.
Tuttavia l’Alfa non fu colta dalla crisi energetica in maniera del tutto impreparata: difatti il caso volle che qualche anno prima presentò, a trazione anteriore e con motore a quattro cilindri contrapposti di soli 1186 cc, un modello completamente nuovo, che pur non essendo in linea con il blasone della tradizione vuoi per la meccanica (comunque raffinata a dispetto della categoria e del prezzo) vuoi per la forma della carrozzeria (una due volumi firmata da Giugiaro), ottenne discreto favore da parte degli acquirenti. Nonostante il successo ottenuto dall’Alfasud (così chiamata in quanto costruita negli stabilimenti di Pomigliano d’Arco), le casse dell’Alfa Romeo cominciarono comunque progressivamente a svuotarsi, e non solo a causa della crisi del petrolio, di questa ormai, nel 1977 non c’e ne era più traccia, tant’è che la Alfetta, fino ad allora prodotta ed aggiornata nelle solite versioni 1.6 e 1.8 venne presentata con il bialbero da 1962 cc e con importanti aggiornamenti sia esterni che interni che le permisero di concorrere alla tanto ambita classe duemila a livello europeo.
Ma non era quello il vero ruolo della Alfetta, ormai troppo imborghesita nella nuova versione, il ruolo da vera berlina spettava al progetto 119, vettura ormai pronta da molto tempo, il cui perfezionamento però necessitava di fondi, elemento sempre più raro ormai in casa Alfa Romeo, la cui minaccia adesso non più rappresentata dalla crisi del Kippur era costituita da una classe politica sempre più attenta a quelli che erano gli interessi di parte che a quelli della azienda come marchio e come immagine, quindi anche come prodotto per chi l’Alfa Romeo la acquistava, spesso anche firmando cambiali, e occupazione per chi all’Alfa Romeo lavorava e grazie alla quale aveva da vivere.
Fu così che il progetto 119 si concretizzo con la presentazione dell’Alfa 6 solo nel 1979 con una linea classica oramai superata, ma con una meccanica di prim’ordine, a cominciare dal motore, un inedito 6 cilindri a V di 60° di 2492 cc e sempre con schema De Dion lievemente modificato.
La scarsa disponibilità economica dettò anche l’esigenza, qualche anno prima, di sostituire la gloriosa Giulia con un modello assolutamente non rivoluzionario, la Giulietta, ma comunque caratterizzato da una linea molto personale e sportiva e con la stessa valida impostazione dell’Alfetta, divenuta oramai vero ed unico fluido ispiratore di tutte le nuove vetture: si aggiunsero le versioni 1.6 e 2.0 all’Alfetta Gt, sulla quale, nel 1980, in occasione di un leggero, ed economico, restyling, venne impiantato il motore dell’Alfa 6…i finanziamenti disponibili in azienda erano sempre di meno, ma la qualità dei mezzi a disposizione e le idee dei tecnici fecero si da creare un capolavoro!!
Purtroppo l’apprezzamento dell’Alfa 6, per i motivi sopra esposti, non era quello previsto dagli allora addetti al marketing (non dei tecnici), ed ancora una volta l’Alfetta dovette ricoprire il duplice ruolo di macchina veloce e berlina di classe superiore, ma divenendo sempre più incline a quest’ultima ispirazione: e così venne aggiornata innumerevoli volte (venne lanciata anche con la motorizzazione di 2 litri a gasolio), allungando rapporti al cambio e dotandola dei più esclusivi accessori dediti al confort disponibili all’epoca, ma ancora senza servosterzo, rivista ed appesantita, a vista e sulla bilancia, da varie plastificazioni, più o meno aerodinamiche, fino al 1984 quando ci si rese conto della necessità di un nuova vettura che degnamente la sostituisse.
Ma le casse erano sempre più vuote, il nuovo modello che sostituì l’Alfasud, la nuova 33, ebbe un ottimo successo, ma le casse rimanevano sempre vuote, causa l’incapacità di gestire una azienda come l’Alfa Romeo, incarico più volte affidato non per meriti oggettivi ma per appartenenza politica: la joint venture con la giapponese Nissan che portò al lancio dell’Arna non servì a molto, anzi…peggiorò le cose.
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Crosswagon distintive
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Alfasud Giardinetta.. in attesa di un lungo restauro
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